Su La Stampa di oggi ho appena letto l’intervista a Wang Shu – vincitore del premio Pritzker 2012- in occasione della sua Lectio Magistralis alla Triennale di Milano per l’inaugurazione della mostra “ from research to design – selected architects from Tongji University of Shanghai.
Fin da quando – qualche settimana fa- appresi dell’assegnazione del Prizker all’architetto cinese Wang Shu e lessi la sua intervista sul New York Times, ebbi l’impressione di una certa affinità con alcune sue affermazioni che oggi ritrovo confermate ancora di più in quest’ultima intervista Milanese.
Il piccolo studio di “dilettanti” ( la dotta ignoranza socratica negletta in occidente si è rifugiata ad Hangzhou?), al massimo 8 persone dove si disegna ancora a mano; il valore della memoria e il rispetto della storia e del buon vecchio “genius loci”; il suo andar oltre la politica e lavorare come un eremita nel suo “sublimatoio”- che ho visto fotografato, semplice al limite del povero, nell’articolo neworkese-; le sue citazioni delle opere dei maestri comuni dell’architettura italiana del secolo scorso ( Terragni, Rossi, Scarpa, ma anche Palladio) ; la definizione di architettura come casa dell’uomo e per l’uomo (conosce la commoditas palladiana?) e l’importanza – quasi poetica- della finestra in scala umana per riportare la scala umana su tutto l’edificio e da questo alla città; infine, come recita anche il titolo che il giornalista ( Francesco Bonami) ha voluto dare all’articolo il suo testamento, un vero e proprio Memento per ogni giovane architetto:
«La prima cosa che faccio fare ai miei studenti è imparare a fare il falegname. La seconda è imparare la calligrafia cinese. La terza lavorare utilizzando la propria esperienza non immaginando in modo astratto che è il peggior difetto di molta architettura oggi».
Tutto questo mi ricorda qualcosa, – a dire il vero- mi ricorda qualcuno che da anni parla di architetto-falegname (come è stato definito dalla penna autorevole di Dario Di Vico sul Corriera della Sera di qualche settimana fa ( 4 luglio 2012, credo) e di falegname evoluto; qualcuno che pur avendo studiato con maestri prestigiosi in una prestigiosa università e avendo appreso la lezione più profonda della nostra storia dell’architettura, considera ancora i migliori maestri i suoi artigiani; qualcuno che disegna ancora a mano e con i suoi disegni in scala governa il cantiere più complesso; qualcuno con cui ho la fortuna di lavorare tutti i giorni; Paolo Ponti, architetto- falegname che segue da sempre la lezione loosiana: “l’architetto è un muratore ( o un falegname) che sa il latino”.
Anche Wang Shu, ricordo dall’articolo neworkese lavora da sempre con sua moglie e quindi saprà perdonare questa mia orgogliosa comparazione diretta con mio marito e collega Paolo; ma forse il paragone non è poi così azzardato e i due incontrandosi avrebbero molte più cose in comune di quanto si possa credere.
Sono contenta di questo nuovo premio Pritzker cinese e lo considero vicino; non perché in questi giorni siamo entrambi a Milano e né perché noi progettiamo spesso boutique nelle città cinesi, ma per i valori professionali che incarna, in continuità forse con quelli di Alvaro Siza ( premiato col Leone D’Oro) e – forse, ma qui sono più scettica- con quelli che David Chipperfield dice di ricercare con la sua biennale “Common Grownd”. Ce lo auguriamo.